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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Gennaro Aprea (del 21/02/2018 @ 19:25:10, in L) Zero-carbonio, cliccato 534 volte)
L'articolo che segue è riportato tal quale da un commento allo studio di un gruppo di studio britannico. Ringrazio  l'autore Dr. Pellini del Kyoto Club e QualEnergia per  il permesso di pubblicarlo
G. Aprea
 
 
Un rapporto del think tank britannico E3G analizza i benefici e gli ostacoli per l’Italia di un passaggio da un’economia basata sulle fonti fossili ad una a basse emissioni. Ma si spiega anche che l’Italia potrebbe diventare uno dei Paesi leader a livello globale dell’economia low carbon.
07 febbraio 2018
 
 
Qual è il ruolo dell'Italia e i vantaggi che il paese potrebbe trarne nel processo di transizione europeo verso un'economia totalmente decarbonizzata?
A chiederselo sono i ricercatori di E3G, un think thank indipendente che opera per accelerare la transizione energetica verso un'economia a basse emissioni di carbonio, nel loro ultimo rapporto "Italy's role in the european low carbon transition. A political economy assessment" (allegato in basso).
 
Lo studio afferma che il nostro Paese trarrebbe un duplice vantaggio da una forte azione per il clima: in primis un ambiente più pulito e una migliore reputazione delle aziende green e delle istituzioni pubbliche; in secondo luogo la protezione dei suoi cittadini dagli impatti climatici.
Un punto importante il secondo, visto che il nostro Paese è sconvolto da numerose calamità naturali: tra il 1980 e il 2015 l’Italia ha perso per queste cause circa 65 miliardi di euro (in media 1,8 miliardi di euro all’anno), di cui solo il 3% delle perdite era assicurato.
Nonostante tutto, secondo il report, il rischio derivante dai cambiamenti climatici non riceve ancora un’appropriata attenzione né sui media né a livello istituzionale; inoltre, le strategie nazionali sui cambiamenti climatici tendono a concentrarsi più sulla mitigazione che sull’adattamento.
Per affrontare il problema, afferma lo studio di E3G, è necessario coinvolgere i territori e le città italiane all’interno di network internazionali che offrono opportunità di apprendimento e spazi collaborativi per condividere azioni pilota e best practices volte ad affrontare le criticità legate al clima.
Emblematico è il rapporto tra Stato centrale e regioni/enti locali. Il documento sottolinea come alcune prerogative per favorire la decarbonizzazione, che sono nelle mani delle Regioni, possano funzionare in maniera molto più efficace: si prendano ad esempio la regione dell'Emilia Romagna e la città di Bologna, che stanno sviluppando piani di mitigazione e adattamento che vanno ben oltre i piani nazionali.
 
Molte città italiane fanno parte di reti transnazionali sulla sostenibilità e il cambiamento climatico, come il "Patto dei Sindaci sul Clima". Nel 2017, inoltre più di 3000 i comuni in Italia hanno generato un 100% della domanda di elettricità residenziale da energie rinnovabili.
Nonostante i combustibili fossili pesino ancora per il 79% nel mix energetico nazionale, l’Italia è stato uno dei primi Paesi europei a favorire l’introduzione dell'efficienza energetica e delle fonti rinnovabili nel suo sistema energetico; ha infatti raggiunto i suoi obiettivi energetici previsti per il 2020 già nel 2014.
Poi, però, il rapporto mette in guardia su alcuni punti. Nella SEN (Strategia Energetica Nazinale) si pensa all’Italia anche come un hub del gas a livello europeo. Questo, dicono i ricercatori, impedirebbe al Paese di sfruttare in tempi rapidi le enormi possibilità che offrono le fonti pulite, settore che oggi impiega oltre 80mila persone. Ricordiamo che l’Italia è quinta al mondo per potenza fotovoltaica installata.
 
Altra questione è la sicurezza energetica: l’Italia è un Paese legato a doppio filo alle importazioni di energia, che rappresentano i tre quarti dei consumi totali.
Il volume di importazioni di petrolio, gas e carbone supera il 90% del consumo totale di queste fonti. La conseguenza è il lievitare di prezzi energetici, così come l’elettricità che per il 67% circa è prodotta ancora con fonti fossili. Anche qui va detto che il nostro Paese detiene in Europa il primato per il prezzo più caro dell’energia elettrica per le piccole e medie imprese.
Sviluppare con maggiore impegno rinnovabili ed efficienza è quindi un'opportunità, secondo E3G, per favorire, contemporaneamente, sicurezza energetica, benefici economici per le imprese, riduzione della bolletta energetica nazionale e transizione low carbon.
 
C’è poi la questione della finanza che, mentre in altri Paesi spesso sta facilitando la transizione energetica, in Italia si dimostra il più delle volte un ostacolo.
Secondo un rapporto del Ministero dell’Ambiente e dell’ONU, il nostro paese potrebbe avere 738 milioni di euro di cosiddetti green bonds e le banche potrebbero aver erogato 27 miliardi di euro di prestiti a progetti di energia rinnovabile tra il 2007 e il 2014. Tuttavia la borsa italiana è classificata al nono posto per la più alta intensità di carbonio nel mondo. E la finanza pubblica ad esempio continua a sostenere il settore del gas.
Basti ricordare che la Cassa depositi e prestiti, con oltre l'80% delle azioni di proprietà del Ministero dell'Economia e delle Finanze, nel 2014 aveva approvato 222 milioni di euro di prestiti per il rifinanziamento della rete di distribuzione del gas "2i Rete".
Eppur qualcosa comincia a muoversi: l’appello di Papa Francesco in favore di una finanza green ha recentemente indotto dieci istituzioni cattoliche italiane a disinvestire da fossili, come hanno fatto anche altre istituzioni religiose su scala internazionale che secondo il Global Catholic Climate Movement hanno finora disinvestito una cifra globale di 5.500 miliardi di dollari.
Un’altra pecca del nostro sistema, evidenziata dal report, è nel campo dell’innovazione: pur essendo l’ottava potenza economica mondiale, il nostro Paese presenta in questo ambito notevoli problemi strutturali.
Il tessuto produttivo del Belpaese è in larga parte costituito da piccole e medie imprese poco propense agli investimenti in ricerca e sviluppo e, come detto, con scarso accesso a finanziamenti.
Sono le poche grandi imprese a detenere il monopolio nei settori a maggiore intensità tecnologica e innovativa, peraltro cruciali per la transizione energetica. I nostri big dell’impresa però continuano ad avere opinioni discordanti sull’energia del futuro. Sarà fondamentale comunque, secondo E3G, aumentare la spesa nella ricerca su più settore e a vari livelli.
Il report si sofferma anche sull’analisi del sistema politico italiano. Secondo i ricercatori, il processo di transizione energetica è compromesso da diverse tensioni all'interno del sistema politico italiano: da un lato, dall'instabilità dei frequenti cambiamenti di governo e dalla continua lotta per il potere tra le regioni e il centro. Dall’altro il rapporto tra governo nazionale e le aziende più influenti, tra cui Enel, Eni e Fiat.
C’è poi la questione del rapporto con l’Unione Europea: buona parte dei provvedimenti sul clima sono stati adottati grazie gli atti vincolanti dell’UE, e ben l’80%% della legislazione ambientale in Italia è di origine europea.
L'Ue influisce anche sulla disponibilità di mezzi finanziari per la transizione: indirettamente attraverso la regolamentazione finanziaria e direttamente attraverso i finanziamenti dell'UE. La spesa annuale dell'Unione in Italia è di 12 miliardi di euro. Gran parte di ciò viene speso in settori chiave per la transizione a basse emissioni di carbonio, come ad esempio l'agricoltura, la politica regionale e la ricerca e sviluppo.
Tuttavia, non tutti questi fondi sostengono la transizione per una società a emissioni nette-zero. Per fare alcuni esempi si ricorda il programma energetico europeo per la ripresa (EEPR) che ha erogato 438 milioni di euro di finanziamenti tra il 2009 e il 2014 per progetti di infrastrutture del gas e la recente approvazione della Banca europea per gli investimenti di un prestito di 535 milioni di euro per migliorare le reti del gas.
07 febbraio 2018
 
 
Di Gennaro Aprea (del 20/07/2018 @ 16:13:08, in L) Zero-carbonio, cliccato 436 volte)
ANCORA NUOVI CARBURANTI BENZINA O DIESEL?



Antonio Cianciullo è un ottimo giornalista che scrive sempre con conoscenza di causa perché ha una lunga esperienza nel settore dei problemi ambientali.
Giorni fa, precisamente il 13 luglio scorso, ha raccontato che un società svizzera ha messo a punto un impianto innovativo che trasforma la plastica in carburanti per i motori a combustione interna. Tutto ciò senza inquinare perché utilizza la pirolisi, senza ossigeno né combustione.
 
In poche parole con 1 tonnellata di plastica monouso, di difficile smaltimento o riutilizzo per produrre altra plastica, si ottengono 900 litri di carburante simile al kerosene e al diesel.
Tutto bene? all'apparenza si, perché diminuiscono le emissioni di CO2, si utilizza meno energia nel processo e il costo del nuovo carburante è inferiore rispetto a quello ottenuto dalla distillazione del petrolio.
 
Secondo me vi è però un difetto di base. Con gli accordi internazionali, COP21 di dicembre 2015 (e COP22) 186 paesi hanno deciso di diminuire l'atteso forte aumento delle temperature medie terrestri al di sotto di 2°C, e successivamente hanno modificato portando il massimo a non più di 1,5°C entro la fine del secolo.
Lo scopo principale di questo accordo internazionale è quindi di cancellare l'utilizzo di ogni prodotto contenente Carbonio la cui combustione produce inquinanti e gas serra, responsabili dell'aumento delle temperature terrestri.
 
Le grandi imprese multinazionali petrolifere hanno deciso di abbandonare gradualmente i carburanti liquidi tradizionali e di investire nel gas naturale (metano) perché meno inquinante e produttore di minore quantità di gas serra considerandolo combustibile di transizione.
 
Allora, perché fare ricerca per produrre carburanti tradizionali (ancora più inquinanti del gas) per la mobilità con la scusa che la produzione di carburanti con questi impianti costa meno di quelli derivati dal petrolio e che risolve - a mio parere solo in parte - il problema dei rifiuti di plastica?
Non si risolvono i problemi della plastica con soluzioni di questo tipo.
Quello dei sacchetti originati da materie prime vegetali è già stato risolto; è necessaria sempre più ricerca e ulteriori investimenti per risolvere il problema degli imballaggi rigidi. Alcuni produttori di bevande hanno già abbandonato la plastica ed utilizzano contenitori in cartoncino, completamente riciclabile. Ma bisogna ancora trovare ulteriori soluzioni più innovative.
Il mondo può essere salvato dalle energie alternative non inquinanti e molti paesi e grandi città nel mondo hanno deciso di eliminare ogni combustibile contenente Carbonio già entro il 2030.
 
In particolare il futuro della mobilità privata e commerciale è solo elettrico. Le produzioni e le vendite di auto elettriche sta aumentando rapidamente, ma già sta aumentando rapidamente anche il numero delle flotte di autobus solo elettrici in numerosi paesi europei. Ed a breve si arriverà anche alla mobilità commerciale.
Quindi per me, e spero che molti condividano il mio punto di vista, investiamo sempre di più nelle soluzioni che aiutano il pianeta a salvarsi dall'aumento delle temperature.
 
Nell'articolo si precisa che la società svizzera GRT Group detentrice del progetto che abbiamo su descritto sta investendo in Italia; forse perché qui i nostri politici lasciano fare? la GRT investe anche in altri paesi?   
 
In conclusione, pollice verso per le soluzioni provvisorie, " di transizione", quindi inutili come questa.
 
Di Gennaro Aprea (del 09/09/2018 @ 19:42:59, in L) Zero-carbonio, cliccato 620 volte)
COSA FACCIAMO PER L'INVASIONE DELLA PLASTICA ?
 
Franco Borgogno, ottimo giornalista scientifico, ha scattato una serie di foto durante l'ultimo viaggio dell'European Research Institute al Polo Nord (1) (81° lat. N il 7-25 luglio 2018) nelle quali appaiono numerosi oggetti o frammenti di plastica con i quali giocavano alcuni uccelli marini. Ne ha contati 150 contro i 31 avvistati nel 2012.
 
Alcuni di voi le avranno viste (molti, spero) e la scoperta è impressionante perché tutti noi siamo portati a ritenere che l'oceano del Polo Nord sia il mare più pulito del mondo abitato solo da fauna e uccelli marini. 
 
In effetti dall'inizio di quest'anno si parla molto di plastica rispetto al passato e dei danni che provoca al pianeta l'uso sconsiderato che ne facciamo. Ma non è solo colpa nostra in quanto cattivi utilizzatori: dietro la parola plastica vi sono enormi interessi di un'industria mondiale che la produce e che non ha alcuna intenzione di ritirarsi in pensione, o meglio di cambiare mestiere. La loro strategia di marketing è quella di spingerci ad usare sempre di più i prodotti di plastica; non solo, ma a rendere difficile la raccolta differenziata per il riciclo ed il ri-uso.
Insieme all'industria vi sono anche molti esempi di governanti incompetenti o disinteressati o addirittura collusi.
 
Persino i dati statistici sono spesso non chiari, contraddittori o non aggiornati. Comunque ve ne do alcuni per darvi un'idea di "quanto" parliamo.
 
Mondo
- dagli anni 50 del secolo scorso ad oggi la produzione totale delle numerose
  materie plastiche di base è stata di 8,3 miliardi di tonnellate (ultimi dati
  disponibili 2016)
- ne abbiamo buttato in natura 6,3 miliardi, cioè il 79% (cioè discariche
  e ambienti naturali)  il 12% incenerito (producendo  inquinamento
  atmosferico) e solo il 9%   riciclato
- ogni anno sono prodotti 310 milioni di t. (dati al 2014); alcuni dati
  parlano di 335 milioni al 2016
- nel 1974 il consumo annuo globale pro capite di plastica era 2 kg;
  oggi siamo a 43 kg
 
Europa (UE 28 + Norvegia e Svizzera)
- produzione: 60 milioni di t. nel 2016
- consumo 49,9 milioni t., il resto esportato
- raccolta di rifiuti plastici per riciclo: 11.3 milioni t. (18,8%) per
  recupero energetico di cui 8,4 milioni per via meccanica, cioè
  producendo nuovi oggetti, ma solo una parte riciclata in
  Europa (37%) mentre il resto è stato esportato e riciclato
  all'estero, prevalentemente in Asia
 
Italia
- produzione: 5,81milioni t. (2017) di cui circa il 27% esportato
- riciclo: 26% del totale
 
Come si può notare, il riciclo in Italia è fra i migliori in Europa e nel mondo. Tuttavia in generale siamo ancora molto lontani dall'ottimo perché la maggior parte della plastica è tuttora lungi dalla sua separazione ottimale. A parte i numeri, la maggior parte di essa finisce insieme ad altri rifiuti in discarica e in parte minore negli inceneritori.
E' importante sottolineare che in Germania, Austria, Svezia e Danimarca le discariche sono proibite.
In effetti, nonostante la raccolta differenziata si sia sviluppata notevolmente, specialmente in Europa, i rifiuti della plastica ed il loro derivante inquinamento della natura sono tuttora eccessivi e si sono estesi alle acque marine ed interne. Tutti siamo al corrente delle numerose ed enormi isole di rifiuti di plastica che galleggiano nell'oceano Pacifico ed in altri mari nel mondo.
 
Non solo, in una ricerca dell'Università delle Hawaii è stato accertato che la plastica esposta al sole si degrada producendo due noti gas serra, il metano e l'etilene; inoltre tutti noi ormai sappiamo che i pesci ingeriscono micro particelle di plastica che entrano nel nostro organismo quando diventano nostro cibo abituale.
E' quindi necessario modificare senza ulteriori ritardi la politica produttiva mondiale nel senso di diminuire drasticamente la produzione di oggetti di plastica e recuperare i rifiuti esistenti e futuri con tutte le tecniche possibili e disponibili.
Se ciò non si realizzasse e si continuasse la lenta politica di miglioramento attuale, la plastica potrebbe raggiungere i 34 miliardi di tonnellate nel 2050 di cui almeno 12 costituirebbero rifiuti sparsi in tutto il pianeta.
Il risultato di uno studio del CNR ha dimostrato che in ogni km quadrato di alcuni mari italiani ne esistono circa 10 kg, in particolare nel Tirreno settentrionale, intorno alle Isole compresa la Corsica e le coste pugliesi. Questi valori sono maggiori di quelli corrispondenti alle famose isole di plastica nell'oceano Pacifico, di cui una grande 3 volte la Francia
 
Come già accennato, i vari tipi di plastica attuali che si degradano in circa 500 anni, possono essere sostituiti, invece delle attuali materie prime costituenti su base petrolchimica (es. polimerizzazione dell'etilene, propilene, ecc.) da altre materie prime, come alcune alghe ,vari tipi di vegetali e persino scarti di cucina, i quali riescono ad auto-degradarsi in circa 2 anni o poco più. La ricerca in questo senso è in stadi avanzati.
 
Un'altra ricerca dell'Università dell'Illinois è già riuscita a far degradare la plastica mediante un processo che indebolisce i polimeri colorandoli in giallo e colpendoli con raggi UV che "strappa" gli elettroni e rompe il circolo con la conseguente instabilità. Ad oggi non si conosce ancora il costo di questo processo su larga scala.
 
La ricerca continua in tutto il mondo avanzato: la più recente è quella di un'azienda svizzera che riesce a produrre 900 kg di kerosene (combustibile per aerei a reazione) e diesel da una tonnellata di plastica leggera (bottiglie e sacchetti) mediante un processo di pirolisi. Meglio questa soluzione - che comunque vale solo per una transizione di medio periodo in favore dell'energia elettrica, dato che la combustione del carburante ottenuto produce comunque gas serra - che i rifiuti di plastica non degradabili.
 
E' recente la notizia che in Francia il governo ha deciso di favorire il riciclo della plastica delle bottiglie mono uso stabilendo un prezzo superiore (di almeno il 10%) rispetto a quelle nuove, cioè non riciclate. Dovrà apparire la garanzia di questo status sul contenitore con pesanti ammende per le falsificazioni. I due risultati positivi sono: da una parte un piccolo vantaggio per i consumatori mentre la più importante è che saranno prodotte meno bottiglie di plastica nuova.
 
Ultima notizia positiva riguarda il "varo" a San Francisco del primo "Ocean Clean Up" (inventore l'olandese Boyan Slat), un grosso tubo di grande diametro lungo 600 m curvato a forma di un'enorme "U" che ha una "gonna" subacquea di 3 m penzolante sotto il livello del mare. Questo galleggiante, chiamato "System 1", si sposta senza bisogno di energie da motori inquinanti ma grazie alle correnti, ai venti e alle onde, le stesse energie naturali che hanno creato le isole di "zuppa" di plastica. Queste sono incamerate senza disturbare la fauna marina sottostante. Il risultato è la facilitazione della raccolta per il riciclo con la diminuzione graduale di questi enormi ammassi di detriti plastici. Si prevede di costruirne una sessantina per raccogliere il 90% delle isole attuali entro il 2040.
 
Comunque è basilare incrementare al massimo la raccolta differenziata dei rifiuti di plastica che è tuttora limitata.
Come già accennato in precedenza, la ritrosia dei produttori di plastica e la misconoscenza dei responsabili delle politiche dei vari livelli esecutivi per salvaguarda dell'ambiente e quindi del clima, crea situazioni e realtà negative.
Mi piace di riportare un paio di piccoli esempi significativi.
 
Come tutti sappiamo, quando con la raccolta differenziata facciamo il nostro dovere di separare i nostri rifiuti di plastica e di carta, le aziende che gestiscono la raccolta si raccomandano di raccogliere quelli di plastica e la carta puliti e separati, Se non lo si fa, questi rifiuti vanno nell'"indifferenziato" destinato quindi all'incenerimento o alla discarica.
 
Da qualche anno a questa parte i produttori di pane e altri cibi da forno come le brioche, ecc., hanno deciso di offrirli confezionati in lussuosi sacchetti di carta con delle finestre di plastica trasparente non facilmente divisibili perché ben incollati fra di loro.
Inoltre i commercianti, soprattutto la GDO (Grande Distribuzione Organizzata), appongono lo scontrino cartaceo sulla parte plastica del sacchetto, cosa che contribuisce unire carta e plastica.
Ciò avviene anche per numerosi altri prodotti alimentari (es. carne, pesce, cibi precotti, ecc.) offerti su vassoietti di plastica o di cartoncino impermeabile, coperti con plastica trasparente; in questo caso lo scontrino di carta è apposto ancora sulla plastica trasparente.
Il risultato è che solo una minima percentuale di noi consumatori si pèrita di dividere i due tipi di imballaggio secondo la regola, cioè dividiamo la carta dalla plastica e tagliamo le parti indivisibili dell'incollatura mettendole giustamente nell'indifferenziato. In effetti  la nostra vita è caratterizzata dalla fretta continua che porta spesso anche a non dare nemmeno una leggera lavata al vassoietto per poter differenziare correttamente (non costa niente metterli in lavastoviglie).
Il risultato finale è che la maggior parte (ritengo 95%) di questi imballaggi "impuri" va nell'indifferenziato. Peggio ancora se sbagliamo nel mettere questi sacchetti tal quali nella plastica: ciò fa aumentare i costi e i tempi per il controllo dei riciclatori che sono costretti a toglierli dal nastro mobile e mandarli all'indifferenziato.
Proviamo ad immaginare il peso annuale di questi rifiuti per ogni famiglia che non viene suddiviso secondo le regole. Certamente non insignificante in tonnellate.
 
Questa è la dimostrazione di come l'industria della plastica crea occasioni di utilizzo della plastica che non può essere recuperata per il riciclo, né tolta dallo spargimento in natura.
 
Cosa potrebbero fare i legislatori? Ecco due semplici proposte di regolamenti:
 
- imballaggi tutti di plastica o tutti di carta
- scontrini tutti di plastica o tutti di carta da apporre sull'imballaggio secondo
  la sua qualità.
 
La loro applicazione non comporta costi salvo per i controlli del caso e l'educazione al commercio ed ai consumatori; ma i nostri legislatori non se ne interessano affatto.
 
Per finire con i nostri politici, e utile ricordare che tuttora, nonostante alcune eccezioni e la buona volontà di pochi produttori di alimentari, ancora la maggior parte di essi non appone sugli imballaggi un chiara scritta della qualità dell'imballaggio e dove deve essere destinato per la raccolta differenziata. Quindi nella maggior parte dei casi il consumatore  dubbioso destina l'imballaggio ancora una volta nell' indifferenziato.
Cosa aspettano a fare un regolamento che imponga queste semplici indicazioni su tutti gli imballaggi?
 
Per concludere è comunque necessario che a livello mondiale noi utilizzatori di qualsiasi prodotto diveniamo consapevoli che è nostro dovere, nel nostro stesso interesse, far sì che i nostri comportamenti si adeguino alla stringente necessità del salvataggio dell'ambiente.
 
Ma ricordiamo anche di farci rappresentare nei parlamenti da quei politici competenti e onesti che intendono lavorare in favore del pianeta.
 
 
 (1) ricerca guidata dall'Istituto Idrografico della Marina con CNR, ENEA, OGS, CMRE, IDS e Università della Sorbona
 
 
 
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