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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Gennaro Aprea (del 21/06/2007 @ 16:12:21, in D) Guerre, cliccato 1005 volte)
LE GUERRE: PENSIAMO UN PO’ DI PIU’ A COME SI POSSONO EVITARE E PERCHE’
 
E’ più di un mese che non scrivo una parola sul sito: in parte è dovuto al fatto che sono stato disconnesso da Internet per una diecina di giorni ed in parte ad altri numerosi impegni. L’articolo che segue era stato scritto p rima dell’interruzione della connessione ad Internet.
 
In una delle ultime puntate di “Chetempochefà” della stagione autunno-inverno 2006-07, la trasmissione di Fabio Fazio del sabato e domenica sera, vi è stato un ospite molto importante: l’autore di un libro autobiografico che ha passato la sua infanzia e la prima giovinezza a fare la guerra, sparando con il kalashnikov e uccidendo a sangue freddo persone di tutte le età. Era stato l’unico superstite di una famiglia distrutta dai guerriglieri della Sierra Leone, mandato a scuola di guerra nella quale gli avevano insegnato ogni sorta di efferatezze.
Poi aveva capito ed era riuscito a fuggire. Dopo varie peripezie ha raggiunto gli Stati Uniti dove vive attualmente.
La guerra civile in Sierra Leone è finita da un pezzo ma le nefandezze che si sono svolte in quel paese sono dovute al traffico di diamanti e di armi (come oggi nel Darfur del Sudan al petrolio e alle armi), armi e munizioni che devono essere consumate…..
Ishmael Beah, questo è il nome dell’ospite che ha scritto il libro che si intitola “Memorie di un soldato bambino”, è oggi una persona normale.
Credo che farebbe bene a tutti leggerlo e meditare. Poi fare qualcosa affinché il traffico di armi cominci a diminuire, un po’ come si parla ora della iniziativa per realizzare la moratoria della pena di morte in ambito Nazioni Unite.
Vi sarà qualcuno che ha un po’ di potere che prenda un’iniziativa del genere? Che so? Creare un movimento popolare che porti delle istanze a livello politico in Europa e nel mondo? Il Web, cioè la RETE, può fare molto.
Attendo reazioni dai più volenterosi.
 
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Di Gennaro Aprea (del 16/05/2007 @ 15:21:00, in C) Commenti e varie, cliccato 1152 volte)
UN SALUTO DAL SUDAN
 
 Fonte: Archivio RAI
 
Ciò che leggerete è stato scritto da un socio de “Il Fontanile”, l’Associazione Culturale di Rodano che fa' cose egregie e che ha iniziato ad attirare partecipanti di altri Comuni, compreso Milano, alle iniziative di tutti i generi le quali hanno un crescente successo.
L’autore e un Architetto, Luca Bonifacio, che ho conosciuto quando era un bambino nel lontano 1969. Recentemente è andato in Sudan per lavoro ed ha mandato un saluto a tutti i soci del Fontanile. In questo breve articolo Luca fa’ una breve e bellissima riflessione sulle impressioni che ha avuto appena arrivato nel sud del paese. Io, che ho vissuto e lavorato in Africa in gioventù, l’ho apprezzata particolarmente.
Luca mi ha dato il permesso di inserirla in questo sito.
 
 
“Bor, 10 maggio 2007
 
Sudan. Un nome che lascia la bocca secca.
Secco è il paese come è secco lo sguardo di chi ci cammina sperduto. Il Sudan è un malato appena uscito dal coma e, come un corpo uscito dal coma, si trascina appena, lancia sguardi confusi qua e là e cerca di reinventarsi un’identità che un enorme trauma ha disfatto, cancellato.
Siamo a Bor, una città che il Nilo ha lasciato lungo il suo corso quasi per caso.
Una strada principale, un mercato, una chiesa, una moschea….
Questo grumo di umanità disorientata sta lì con il suo trauma ancora vivo negli occhi.
I bambini vanno da un posto indefinito ad un altro altrettanto indefinito. A volte sono accompagnati da adulti alti come giganti.
A volte i giganti vanno in giro da soli. Anche loro non sanno dove vanno, ma vanno.
Sopra di loro il cielo è gigante pure lui e l’aria carica di fotoni equatoriali è ricamata dal rito micidiale di falchi immensi. Se sulla strada principale si gira a un certo punto a destra, prima del mercato e dopo i tendoni delle Nazioni Unite si arriva in un posto dove, si dice, dei bianchi con magliette tutte uguali curano chi arriva.
Quei bianchi siamo noi.
All’inizio, mi dicevano i colleghi, la gente diffidava. Diceva che là dentro si faceva magia. E un po’ avevano ragione. Del resto solo con la magia si riesce a mandare avanti un ospedale in un posto come questo.
Sono qui da due settimane e sembra che il tempo si sia dimenticato delle sue regole. Il mio mandato è semplice: devo curare il posto che cura.
L’ospedale di Bor è un complesso edificato che, come chi ospita tutti i giorni, appare come un paziente terminale che si tiene su per grazie concessa. Crepe putride, colonne zoppicanti e muri sventrati.
E’ vero, è stato un terremoto a lasciarlo così, ma non potrebbe essere diversamente questo posto. Nel suo tormento sembra che partecipi al calvario quotidiano che questa umanità marziana recita tutti i giorni tra queste mura.
Come in un dramma omerico, sagome con tuniche stracciate si agitano nella penombra.
Sono accasciati, sono appoggiati, sono coperti di mosche, sono intubati. Sono fasciati. Sono sfasciati e portano qualcun altro che si è sfasciato più di loro.
All’improvviso in un angolo inaspettato appare un coro di donne. E’ il mistero di questa genesi umana che ripete la sua profezia assoluta. Un’altra anima è saltata. L’Africa muore.
Questo ce lo diciamo tutti i giorni. Ma qui questo concetto si fa’ reale e tangibile perché chi muore ha una faccia. Una faccia che ieri c’era e oggi non c’è più.
Allora le donne piangono e con loro piangono i muri, le pozze d’acqua, i manghi, le lamiere e i bambini che non sanno perché piangono, ma piangono.
A questo spettacolo assistiamo anche noi. Si, ci siamo. Siamo in molti quindi possiamo ricordare gli uni agli altri che ci siamo veramente. In un modo o nell’altro.
Siamo astronauti alla scoperta di un pianeta perduto, circensi dell’ultima ora che montano giostre, costosissime, giocolieri e trapezisti che saltano nel vuoto cercando di afferrare corpi avvolti in acrobazie impossibili. O almeno così sembra. Ma la quotidianità, come succede spesso nella vita, non appare sempre così lirica e si finisce solo per incazzarsi con la poca reattività locale, il cibo, le mosche e il caldo. Ma questa è la vita. No?
Che vita! una vita africana.
Africano è il tempo. Africana è la rassegnazione.
Africano è il mal di pancia che ti morde.
Africano è il limite a cui tutto converge all’improvviso.
Un insetto diventa una tormenta di cavallette, una febbre diventa un’epidemia incontrollabile, una nube un nubifragio che si porta via tutto, un malinteso diventa una guerra che lacera una regione grande come mezza Europa, per vent’anni.
Questa è l’Africa. Il tutto e il nulla insieme.”
 
 
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Di Gennaro Aprea (del 15/05/2007 @ 11:45:31, in F) Questa è l'Italia, cliccato 8154 volte)
CARTELLI STRADALI
 
  
Questi miei articoli non hanno alcuna pretesa di fare la concorrenza a quanto scrivono molti ottimi editorialisti (alcuni un po’ meno bravi, altri che dovrebbero ritirarsi dalla professione) che leggiamo sui giornali o che raccontano molte storie in televisione o alla radio. Certe volte però mi viene la voglia di chiosare o commentare grazie ad alcune mie esperienze le quali possono aggiungere qualcosa di utile ai fini della completezza dell’argomento. Spesso mi occupo di cose piccole, anche futili, che i grandi giornalisti non trattano e, quando posso, cerco di farlo cercando di strappare un sorriso al lettore.
Oggi, di ritorno da un viaggio in auto che mi ha portato da Rodano nella zona del Chianti – state tranquilli non ho bevuto durante il viaggio – poi a Roma, a Napoli, ad Avellino, continuando per Benevento ed infine a Lucera vicino a Foggia, ho potuto notare ancora una volta lo spreco di denaro speso per la miriade di cartelli stradali lungo tutte le strade, soprattutto fuori delle autostrade. Spreco che porta a confondere il guidatore che, attento a non fare sbagli o contravvenire al codice della strada, non può fare a meno di leggerli tutti mentre guida. La conseguenza è che a volte è perfino distratto da questa pletora di cartelli stradali, per non parlare di quando ti danno indicazioni sbagliate o mancano proprio nel momento in cui ne hai bisogno. La conseguenza di quest’ultima situazione è che si può facilmente sbagliare strada.
Non sto a raccontarvi tutto ciò che ho visto durante questo lungo viaggio, ma non posso fare a meno di raccontarvi un esempio che è significativo della situazione che si ritrova un po’ dappertutto.
L’ultimo giorno del mio viaggio mi trovavo dunque a Lucera ed avevo un appuntamento alle 8 di mattina a San Severo una cittadina a 21 Km; alle 10 ero già di ritorno per un secondo appuntamento a Lucera poi verso le 11,30 ho dovuto riprendere la strada (provinciale) per San Severo e da lì, senza fermarmi e con vari giri inutili dovuti ad indicazioni errate in città, prendere finalmente l’autostrada adriatica per il ritorno verso Milano.
Nel giro di poco tempo ho quindi percorso quella strada 3 volte e mi sono rimasti in mente i cartelli stradali che abbondano e che a mio parere non servono a niente. Non li ho contati, ma credo che in 21 km non ve ne siano meno di 100, cioè in media uno ogni 210 metri.
La strada, salvo tre tornanti iniziali da Lucera che è su una collina, è praticamente tutta diritta. Quindi si potrebbe andare a 90 km/ora. Invece lungo tutto i percorso vi sono dei cartelli che limitano la velocità a 60 km. Le ragioni sono due: alcuni cartelli indicano dossi per 300 m, poi ancora dossi per 400 m poi ancora per 500 m e così di seguito fino al termine; altri indicano la presenza di acqua sulla strada in corrispondenza di alcuni avvallamenti che rendono il piano asfaltato un po’ meno sopraelevato rispetto al piano di campagna.
Ebbene la strada è quasi un biliardo, non vi sono dossi, non vi sono buche, solo qualche pezza di asfalto riparato. Acqua nella depressione? nemmeno la più piccola avvisaglia di umidità nei campi.
Un altro tipo di cartello frequente (ne ho contati sette in 21 km) è quello che vediamo spesso in giro per l’Italia, cioè “controllo elettronico della velocità”, che è una grossa bugia perché di controlli di questo tipo su quella strada non ce ne sono e non ve ne sono nemmeno sulle autostrade.
Confesso che non ho viaggiato a 60 all’ora; mi tenevo fra i 70 e i 90 mentre le auto anche di piccola cilindrata (la mia è di 3000 cc ed ha 230 cavalli di potenza) mi sorpassavano allegramente a velocità molto sostenuta.
Come mai questa situazione? Le mie ipotesi sono le seguenti:
1)     molti, molti anni fa vi erano dossi e buche, poi hanno asfaltato varie volte e la strada è adesso molto ben tenuta…ma i cartelli sono rimasti. Forse costa molto toglierli e rimetterli dove servono altrove?
2)     Idem per le eventuali presenze di acqua sull’asfalto
3)     Il cartello di controllo della velocità è stato messo quando all’inizio serviva come deterrente, ora tutti se ne fregano e guidano su quella strada a non meno 120 km/ora
Commento finale: lo spreco di denaro è evidente …..e io pago! come diceva Totò.
Mentre la Provincia di Foggia è ricca e mantiene cartelli inutili grazie ai contributi dei suoi cittadini.
 
A proposito, perché in Italia vi sono dei limiti di velocità assurdi, cioè 20 o 30 km/ora in presenza di lavori o 60 – 70 sulle autostrade quando per esempio le 3 corsie diventano 2 per lavori, ecc. ecc.?
Negli altri paesi europei i limiti di velocità in questi casi sono più che ragionevoli. Esempio classico sono le autostrade tedesche dove non vi è alcun limite di velocità come invece da noi e in Francia a 130 km/ora. Se vi sono dei lavori in corso mettono dei cartelli (che vengono tolti immediatamente al termine o negli orari di sospensione) che riducono a 110, 100, 90, 80, quest’ultima cifra proprio se la strada si restringe molto. Tutti si adeguano, dico tutti, perché se si sgarra si è controllati veramente e “mazziati” di multe elevatissime. ….dove sono i controlli sulle nostra strade e autostrade?
In questo mio viaggio ho percorso complessivamente 2080 km: ho incontrato solo una, dico una pattuglia di Carabinieri all’interno di un centro abitato! E ho guidato a tutte le ore!
 
 
 
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